Rapporto sui Consumi 2007

Rapporto sui Consumi 2007

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23 gennaio 2008

L'andamento dei consumi negli ultimi 15 anni è stato in Italia poco dinamico. Naturalmente non sono mancati momenti di crescita, ma essi hanno costituito un'eccezione nel contesto di uno sviluppo modesto, sia in termini assoluti che in relazione alle dinamiche osservate presso i nostri partner europei ed extra-europei. Eppure, i consumi e i consumatori hanno fatto forse più di quanto ci si poteva da loro aspettare. Non è una crisi di domanda, quella che abbiamo alle spalle. Tutt'altro. Basti pensare che tra il 1993 e il 2006 il reddito reale delle famiglie è cresciuto di 2 decimi di punto per anno. I consumi dell'1,2%.

Una lettura sintetica di questi fenomeni nel lungo periodo è data dalla relazione tra prodotto potenziale – il massimo che un paese può produrre in un anno senza generare inflazione – e spesa reale delle famiglie. Meglio del prodotto lordo effettivo, quello potenziale dà conto anche delle prospettive dell'economia, di ciò che è lecito attendersi stante l'attuale dotazione di capitale, materiale e immateriale, e della quantità e qualità dell'offerta di lavoro. Dagli anni sessanta a oggi il potenziale è passato da un tasso di sviluppo superiore al 6% a una crescita inferiore all'1% nella prima parte degli anni 2000, per attestarsi all'1,6% nella seconda parte di questo decennio. La crescita dei consumi segue da vicino: se non si produce meglio e di più non c'è possibilità di spendere stabilmente di più. A questa regolarità non si sfugge.

È bene sottolineare che contestualmente alla riduzione della crescita dei consumi si è osservata una riduzione della propensione media al risparmio. Queste due evidenze testimoniano che solo la crescita del prodotto complessivo – che segue la crescita del prodotto potenziale – genera al contempo maggiore quota di risparmio e maggiori consumi. I risparmi si traducono nell'accumulazione di ricchezza personale, cui fa da controparte il capitale produttivo. Maggiore accumulazione vorrà dire poi maggiore crescita e consumi superiori sia quantitativamente che sotto il profilo qualitativo. Questo circuito positivo, nel nostro paese, non funziona più da tempo.

I mai troppo frequenti richiami alla necessità di ristrutturare la nostra dotazione di capitale materiale e immateriale, in particolare attraverso una revisione del sistema formativo, scolastico e universitario, originano dalla consapevolezza che il sistema dell'offerta necessiti di un innalzamento del livello del prodotto e una maggiore efficienza che possa implicare poi una maggiore crescita, anno per anno, dello stesso prodotto.

Sul piano familiare delle determinanti dei consumi, a fronte di un reddito disponibile poco dinamico, la ricchezza accumulata sia finanziaria sia immobiliare ha comunque sostenuto i consumatori nel tentativo, solo parzialmente riuscito, di difendere i propri livelli di benessere, sperimentati attraverso la spesa per consumi.

Contrariamente a quanto affermato in altri studi, risulta dalle elaborazioni presentate in questo rapporto che anche la ricchezza immobiliare gioca un ruolo nella determinazione dei livelli di spesa. È del tutto evidente che la relazione misurata per l'Italia tra queste grandezze è più debole che in altri contesti caratterizzati da un maggiore grado di finanziarizzazione dell'economia, nei quali qualsiasi asset può generare liquidità aggiuntiva in tempi brevi. Ma ciò non implica che si possa trascurare del tutto il ruolo della ricchezza immobiliare. Dopo lo sgonfiamento delle quotazioni delle attività finanziarie a ridosso dell'inizio del decennio, è stata proprio la ricchezza immobiliare che ha sostenuto i consumi, in un contesto nel quale il reddito corrente è rimasto invariato. Senza il contributo fornito dallo sviluppo delle quotazioni delle abitazioni tra il 2000 e il 2006 avremmo probabilmente osservato una crisi dei consumi, e dell'economia di conseguenza, di dimensioni sensibilmente maggiori rispetto alle pure esigue performance registrate.

Per il triennio 2007-2009 è stato ipotizzato un incremento reale costante della ricchezza finanziaria pari all'1,6% annuo. La ricchezza immobiliare invece si mantiene costante in termini reali per tutto il periodo, salvo per una riduzione nominale pari all'1,1% nel 2007 (corrispondente a una contrazione del 3,1% a prezzi costanti). Dunque, si incorpora in questi trend un moderato ma significativo rallentamento nel valore reale degli asset detenuti dalle famiglie. Ne consegue una riduzione del rapporto ricchezza totale-reddito disponibile che frena la dinamica della propensione al consumo, bloccandone il livello sui valori raggiunti nel 2006. Tutto ciò, in concomitanza con una crescita modesta delle risorse disponibili per i consumi, si traduce in una spesa, in termini reali, poco dinamica: il 2007 dovrebbe chiudere a +1,6% dei consumi nella metrica delle famiglie residenti, mentre farebbe segnare qualche decimo in meno nella metrica della spesa sul territorio, in ragione di un saldo turistico poco dinamico.

Peggiori risultano le prospettive per il 2008, periodo nel quale si faranno sentire pienamente gli effetti depressivi della riduzione del valore reale degli immobili. Lo sviluppo della spesa reale delle famiglie residenti dovrebbe limitarsi all'1,3% per poi risalire nell'anno successivo. L'errore di previsione cresce, però, man mano che ci si allontana nell'orizzonte di previsione.

Questi risultati e le riflessioni che li sorreggono prescindono dalle oscillazioni congiunturali delle grandezze economiche, che tuttavia sembrano convalidare l'ipotesi di una riduzione del tasso di crescita del prodotto e dei consumi, addirittura oltre le valutazioni quantitative qui presentate. Anche l'inflazione, misurata tanto in termini di variazione dell'indice dei prezzi al consumo quanto come variazione del deflatore dei consumi, potrebbe costituire un problema aggiuntivo. La variazione prevista per il 2008 si ferma a +2,3% ma potrebbe essere necessaria una pronta correzione nei primi mesi dell'anno per portarla anche oltre il 2,5%. Le implicazioni di un tasso d'inflazione ancora maggiore, attorno al 3,0%, come direbbero semplici stime auto-regressive sui principali aggregati dei prezzi al consumo, sono difficilmente valutabili. In ogni caso, la probabilità di una correzione al rialzo del tasso d'inflazione è oggi molto maggiore di qualche tempo fa.

Le differenziazioni territoriali nei profili di spesa dipendono prevalentemente dalle differenze nelle stime di elasticità dei consumi alle variabili determinanti. Il Mezzogiorno si caratterizza per una più intensa relazione tra dinamica della spesa e dinamica del reddito: è un segnale della maggiore fragilità strutturale dell'economia meridionale. Se, come si prevede, la dinamica del reddito disponibile nel 2008 sarà particolarmente esigua, la famiglia media del Mezzogiorno ne soffrirà relativamente di più.

Negli anni duemila lo scenario dei consumi e delle loro determinanti cambia radicalmente rispetto al passato. Il tasso d'interesse scende fortemente e si colloca per lunghi periodi sotto il tasso d'inflazione fornendo addirittura un contributo positivo ai consumi (visto che i tassi e le aspettative correlate sono ridotti conviene consumare subito, piuttosto che domani). L'evento più importante, anche più importante della riduzione del contributo del reddito disponibile, è la drastica riduzione della spinta proveniente dalle attività: lo scoppio della bolla finanziaria sui titoli tecnologici gioca un ruolo di rilievo in questo contesto.

Il testimone è immediatamente preso dalla ricchezza immobiliare per tutto il periodo 2000-2006. Tenendo conto di questi fattori, lo strumento qui utilizzato per formulare le previsioni, 'prevede' per questo sottoperiodo 2000-2006 consumi più dinamici rispetto a quanto effettivamente verificatosi. L'analisi dei contributi dice con chiarezza che stando all'andamento delle variabili determinanti e delle relazioni stimate avremmo dovuto osservare una dinamica dei consumi migliore di quella che si è effettivamente realizzata: quest'ultima costituisce, in effetti, una delle peggiori performance della spesa reale del secondo dopoguerra. Al di là degli errori di stima, ciò suggerisce che è forse stato trascurato il ruolo delle aspettative: esse nel corso di questi anni si sono deteriorate significativamente anche se l'inclusione del clima di fiducia all'interno dei modelli non sortisce risultati apprezzabili. Il richiamo alle aspettative è dunque una semplice congettura non dimostrata. Un altro fattore che potrebbe avere pesato nella stessa direzione di deprimere la propensione al consumo, e quindi i consumi, riguarda la ricchezza pensionistica che, per i lavoratori in attività, ha subìto nel corso delle varie riforme durante gli anni novanta, sensibili contrazioni in termini di benefici netti attualizzati. Resta da capire perché la propensione al consumo si stabilizzi solo a partire dall'anno 2000 quando gli effetti delle riforme sulle pensioni erano attivi già dal biennio 1993-1994. L'idea che per ragioni demografiche e percettive soltanto dall'inizio di questo decennio si sia cominciato a sperimentare l'effetto delle riforme pensionistiche, rispondendovi con un incremento della propensione al risparmio, resta anch'essa una congettura in attesa di convincenti prove empiriche.

Le considerazioni appena fatte sono premessa per interpretare ancora più in profondità la previsione dei consumi per il periodo 2007-2009. Al netto degli effetti di approssimazione, degli errori di stima e degli effetti correlati alle dinamiche di breve periodo, la previsione che emergerebbe direttamente dagli strumenti previsionali si ferma a un tasso medio di crescita dello 0,9%, differente dall'1,5-1,6% che proponiamo sulla base di aggiustamenti che tengono conto dei primi tre trimestri del 2007, ormai osservati. La questione è rilevante: i primi nove mesi del 2007 indicano una crescita dei consumi molto superiore a quella coerente con le relazioni tra consumi e variabili determinanti stimate per il lungo termine. L'implicazione di questa incoerenza tra contributi alla crescita derivanti dal modello e osservazioni reali nei primi trimestri suggerisce che le aspettative – da noi non considerate esplicitamente – siano migliorate a cavallo tra il 2006 e il 2007 e abbiano spinto al rialzo i consumi per tutta la prima parte dell'anno. La riduzione del clima di fiducia Isae nella seconda parte del 2007 potrebbe preludere a un nuovo ripiegamento del tasso di crescita della spesa reale. Conclusione: se si dovesse scommettere sull'errore di previsione bisognerebbe puntare sulla sovrastima dei tassi di crescita dei consumi qui previsti.

I modelli di consumo nel nostro paese sono cambiati radicalmente nel corso degli ultimi 25 anni. Sono oggi più complessi, e anche confusi. Con ciò si intende che non è più possibile operare una classificazione delle strutture di consumo per gruppi o classi di consumatori sulla base delle (sole) variabili socio-economico-demografiche (SED). Fino agli anni settanta, più o meno, si poteva individuare una struttura prevalente dei consumi che procedeva in una certa direzione con lo sviluppo della fascia di reddito.

Si consolidava una piramide dei consumi che aveva alla base le spese fondamentali e in cima i cosiddetti consumi di lusso. E per consumi di lusso si potevano identificare intere categorie e non già prodotti o singole marche.

Lo sviluppo del reddito negli anni settanta e ottanta, il successivo processo di accumulazione di ricchezza liquida o immobiliare, la diffusione del credito al consumo e, soprattutto, per gli anni che vanno dal 1990 a oggi, la stagnazione della crescita e l'espansione delle spese obbligate – affitti, luce, acqua, gas, carburanti e assicurazioni obbligatorie – hanno rimescolato così profondamente gli scenari microeconomici che oggi si farebbe quasi certamente un errore considerevole a provare a indovinare la quota di spesa per una certa categoria di consumo sulla base dell'informazione su fascia di reddito, composizione del nucleo e attività del capofamiglia.

Il riflesso per il commercio è immeditato: non bastano poche variabili di classificazione per identificare il cliente prevalente per tipologia di negozio. Per l'industria, è altrettanto vero che non si può pensare un prodotto per aggregati di consumatori. La personalizzazione di prodotti e servizi appare sempre più necessaria per tutti gli operatori della filiera dei prodotti e dei servizi di consumo.

Nel nostro paese, il complesso delle suddette considerazioni ha portato alcuni esperti del settore a negare completamente la possibilità di interpretare le dinamiche del consumo e dei consumi con gli strumenti dell'economia, secondo la retorica della complessità, dell'unicità e irrazionalità del consumatore.

La posizione qui assunta è che, invece, a un certo grado di aggregazione su beni e consumatori, le variabili tradizionali abbiano ancora un potente ruolo esplicativo, con l'importante qualificazione che analisi e previsioni di questo tipo costituiscono un quadro all'interno del quale applicare paradigmi differenti e più articolati. Per esempio, è facile assegnare la riduzione di quota degli alimentari consumati in casa allo sviluppo pluridecennale del reddito. Allo stesso modo si può intuire che in periodi di crescita dell'economia le quote di spesa allocate su consumi complementari alla fruizione del tempo libero tenda a crescere o, almeno a stabilizzarsi, mentre in periodi, di basso sviluppo – come è accaduto tra il 1990 e il 2005 – queste quote possano facilmente contrarsi. Alcune spese sono radicalmente differenziate in dipendenza dalla composizione familiare, come quelle per i trasporti. In tali casi non esiste una quota di spesa cui le differenti tipologie possano convergere, a prescindere da qualsiasi livello del reddito disponibile (e della ricchezza personale).

Eppure, nonostante questo, la variabilità per tipologia familiare per ciascuna quota di spesa risulta fortemente crescente nel tempo se la dispersione viene calcolata incrociando altre dimensioni di classificazione, come per esempio l'attività del capofamiglia o la residenza geografica. L'affinamento dell'analisi, in questo senso, non può percorrere le medesime strade dei modelli aggregati sui consumatori e sui beni ma deve passare dallo studio dei consumi su micro-dati, informazioni campionarie, magari in panel, riferite a singole famiglie e specifici prodotti e servizi.

Coerentemente con le elasticità al reddito, che rivelano i potenziali movimenti dei consumatori nell'ipotesi che essi siano liberi di spendere risorse disponibili aggiuntive, le aree di spesa complementari alla fruizione di tempo libero, domestico o outdoor, sono cresciute un po' di più della media dei consumi. Questi dati, dunque, confermano le profonde modificazioni che hanno interessato nel lungo periodo i comportamenti di spesa delle famiglie, sempre più orientati a quelle funzioni di spesa che hanno nella creazione di valore-benessere al tempo svincolato dalle necessità e della produzione di reddito per soddisfarla.

Tende a ridursi nel tempo, in termini reali, la somma delle tre macrofunzioni più importanti – cioè cura del sé, abitazione e pasti in casa e fuori casa – che dal 75% circa del 1992 si riduce a poco meno del 70% nel triennio di previsione. Per converso, cresce la quota delle rimanenti macrofunzioni – vale a dire tempo libero, vacanze e mobilità – portandosi dal 25% circa del 1992 a quasi il 30% nel triennio di previsione. È evidente quindi che tra questi due principali aggregazioni di consumi esiste una sensibile differenza di velocità nella crescita, che conduce ad un effetto-sostituzione all'interno dei gruppi e tra i gruppi.

È possibile riaggregare le funzioni di spesa per identificare le aree del tempo liberato rispetto all'area dei consumi di base, nell'eccezione di essere complementari a un tempo regolato, scandito in prevalenza da obbligazioni sociali o naturali. Nella prima vi includiamo tempo libero, vacanze, mobilità e comunicazioni più l'alimentazione fuori casa (che fa parte della funzione di pasti in casa e fuori casa) e all'area delle spese di base assegniamo abitazione, cura del sé e l'alimentazione domestica. L'obiettivo è chiaro, esattamente quanto le semplificazioni implicite in tale esercizio (molti pasti fuori casa sono connessi all'allocazione dl tempo di lavoro e niente affatto libero o liberato, mentre molti pasti in casa rappresentano l'eccellenza nella produzione domestica di valore e valori personali e relazionali slegati dal tempo di produzione). Alle spese del tempo liberato abbiamo poi sottratto il saldo turistico, cioè la spesa dei non residenti in Italia e aggiunto la spesa dei residenti all'estero al fine di dimensionare una quota sui consumi degli italiani che sia testimonianza, quanto più affidabile possibile, della crescita di benessere delle famiglie (fenomeno che è legato anche alla spesa per soggiorni all'estero). Infatti il rapporto tra tale quota e la quota delle spese basiche potrebbe approssimare molto meglio del reddito disponibile pro capite un indicatore qualitativo di benessere perché identifica il progressivo spostamento di risorse dai consumi legati al vivere quotidiano ai consumi complementari, in senso lato, al tempo liberato dagli obblighi e dagli oneri della produzione di reddito. La superiorità rispetto al reddito pro capite è data dal fatto che il nostro ‘quoziente qualitativo di benessere' (QQB) tiene conto delle effettive opportunità di mercato che i consumatori hanno, o non hanno, potuto cogliere nel corso del tempo, sia per la presenza, o la mancanza, di prodotti e servizi utili al soddisfacimento di aspirazioni elevate e mature sia per l'azione di ostacolo o facilitazione fornita dal livello e dalla dinamica dei prezzi (relativi).

Lo sviluppo del quoziente qualitativo di benessere è costante ma lento: in sintesi, è un'altra e più pregnante versione del problema della bassa crescita della produttività nel nostro paese. Produttività, retribuzioni e consumi poco dinamici, implicano che nonostante i consumatori colgano tutte le opportunità disponibili sul mercato per fare crescere il loro benessere, quest'ultimo, in presenza di risorse stazionarie o decrescenti, difficilmente manifesterà miglioramenti significativi.

Analoghi calcoli per i diversi Paesi europei evidenziano una relazione molto stretta, ma non deterministica o banale, tra prodotto interno lordo pro capite e QQB del 2006. L'appiattimento della sezione iniziale dei punti della figura non cela alcun difetto nella linearità della relazione. Il grafico in piccolo che zooma su questa sezione evidenzia, invece, una precisa linearità nel tratto iniziale. A redditi bassi si associa un QQB attorno al 50% che indica che per ogni euro speso in consumi di base si spendono non più di cinquanta centesimi in consumi legati al tempo libero (nell'accezione precedentemente discussa). Solo superata una certa soglia di reddito pro capite, che possiamo individuare nei valori oggi presentati proprio dall'Italia, la relazione si rafforza notevolmente: in pratica per ogni euro speso in consumi di base si tende a spendere, superata tale soglia, da 60 a 90 centesimi di euro in consumi particolarmente desiderati. Il nostro paese si colloca ancora in una posizione arretrata, dunque, rispetto ai paesi a elevato QQB. Manca il carburante, il reddito disponibile, per fare quel salto che diversi paesi hanno già potuto operare, dall'Inghilterra all'Olanda, dall'Austria all'Irlanda.

D'altra parte ci sono anche questioni legate a pronunciate abitudini di consumo che si perdono nel computo del quoziente di benessere. È il caso della Spagna, che destina ingenti risorse alle spese legate al tempo liberato. Ma anche l'evidenza relativa alla penisola iberica nulla toglie al significato dell'indice: evidentemente la struttura dei prezzi relativi in Spagna e le opportunità di mercato – presenza e accessibilità di ristoranti e musei, teatri e osterie, stadi, discoteche e luoghi d'intrattenimento realmente fruibili – consentono agli spagnoli questa favorevole allocazione della spesa. Favorevole perché desiderata dal punto di vista delle famiglie e resa possibile dai prezzi e dal mercato.

Si ritorna dunque al punto iniziale. I consumi delle famiglie e le elaborazioni che si possono sviluppare a partire da questi consentono meglio, degli indicatori di reddito, una rappresentazione del benessere, ancorché puramente qualitativa. Ciò perché i consumi, a differenza del reddito, incorporano già le reazioni delle famiglie rispetto alle opportunità di mercato e alla struttura dei prezzi relativi, oltre che agli effetti derivanti dalla ricchezza e dal reddito disponibile medesimo. In ogni caso, anche un esercizio relativamente semplice come quello che ha portato alla costruzione del quoziente qualitativo di benessere fa emergere che l'Italia palesa un forte ritardo di condizione economica rispetto ai nostri principali partner europei.

Non si ravvisano oggi chiari segnali di un'inversione di tendenza nel prossimo futuro.

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