Scenari e prospettive del terziario

Scenari e prospettive del terziario

Roma, 28 febbraio 2007

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28 febbraio 2007

Anzitutto, grazie a tutti gli autorevoli partecipanti a questo incontro.

È un grazie non rituale, perché, pur nella diversità delle posizioni emerse, mi sembra di poter dire che ci sono stati punti di convergenza importanti rispetto alla tesi di fondo che, come Confcommercio, oggi abbiamo voluto offrire alla discussione.

La tesi, la nostra tesi è, peraltro, semplice e nota. C'è un po' di ripresa: è vero ed è un bene. Ma sarebbe sbagliato, rispetto alla ripresa che c'è, un approccio passivamente ottimistico. Al contrario, se ripresa c'è, allora è questo il momento per agire.

È, cioè, il momento di mettere in campo scelte e riforme che consentano al Paese una crescita stabile e anche più robusta.

Scelte e riforme che mettano al centro degli impegni – del Governo, del Parlamento e delle forze sociali – i problemi di lungo periodo dell'economia reale del Paese, sciogliendo i nodi delle tante questioni che rendono l'Italia troppo fragile nello scenario della competizione globale.

L'ultima riprova l'abbiamo avuta l'altro ieri. Ci siamo piazzati al ventunesimo posto nella graduatoria europea che misura quanto ciascun Paese dell'Unione ha fin qui fatto per il conseguimento degli obiettivi dell'Agenda di Lisbona.

Riforme, dunque. Riforme e ancora riforme. Per sciogliere i nodi della crescita lenta e della competitività difficile.

È questo il solo modo per iniziare a costruire, da oggi, un futuro migliore: per le imprese e per i lavoratori, per le famiglie e per le nuove generazioni.

Nella storia, anche recente, del Paese, ci sono state, del resto, altre occasioni in cui ciò è stato fatto.

È stato fatto con il cuore di quella concertazione – la politica dei redditi – grazie alla quale l'Italia seppe reagire, nei primi anni novanta, ad una drammatica situazione finanziaria e grazie alla quale, ancora, siamo poi riusciti a conquistare il traguardo dell'ingresso nell'Europa dell'euro.

Con questa stessa "responsabilità collettiva" – per dirla con le parole significativamente usate, qualche settimana fa, dal Governatore Draghi – oggi dobbiamo misurarci con le sfide della competitività e della produttività.

Dunque, per quel che ci riguarda, come ieri non siamo stati affrettatamente "declinisti", così oggi non siamo ingenuamente e passivamente ottimisti.

Invece, ieri come oggi, noi poniamo un problema e, al contempo, segnaliamo un'opportunità.

Il problema di una concertazione che sia più attenta a ciò che il mondo dei servizi rappresenta nell'economia e nella società italiana, perché le imprese che vi operano sono, appunto, una straordinaria opportunità di crescita e di occupazione.

Lo sono state in anni congiunturalmente difficili ed ancora di più potrebbero esserlo se ora, profittando di quel tanto di ripresa che c'è, su di esse si decidesse di investire.

Di investire – badate bene – non facendo ricorso al consueto e ormai vetusto armamentario degli incentivi a carico della spesa pubblica.

Di investire – invece – in termini di attenzione politica, di politiche pubbliche, di riforme.

Perché è così che va perseguito l'incremento della produttività dei servizi come motore fondamentale per una crescita più stabile e più duratura.

Perché è così che si contribuisce allo sviluppo di una domanda delle famiglie a tutt'oggi troppo debole e allo stesso incremento del reddito pro-capite.

Sono questioni, del resto, che ha benissimo tratteggiato, nella sua relazione introduttiva, Francesco Rivolta che, come Presidente della nostra Commissione Sindacale, ha promosso l'organizzazione di questa mattinata di discussione e di approfondimento, con una felice intuizione di cui lo ringrazio.

Lo ha fatto, lo abbiamo fatto nel momento in cui si apre il confronto per il rinnovo di un contratto collettivo fondamentale come quello del terziario – che interessa quasi due milioni di lavoratori – esattamente per dire, pubblicamente e con senso di responsabilità, che quella della crescita della produttività è oggi la sfida fondamentale che le imprese dei servizi vogliono affrontare e vincere.

Per affrontarla e per vincerla, però, abbiamo la necessità che questa responsabilità sia condivisa e fatta propria da tutti: dalle grandi Confederazioni Sindacali, dal Governo e, in maniera bipartisan, dalla politica.

È, allora, una responsabilità delle parti sociali che, insieme e attraverso lo scambio contrattuale, devono definire una dinamica salariale in linea con la realtà del mercato e costruire e governare una flessibilità organizzativa e di orario coerente con la riconosciuta centralità – ricorro alla formula di Rivolta – del "consumatore come cliente".

Lasciamo – lo dico, in particolare, al Ministro Damiano che ringrazio per aver voluto essere con noi in una giornata politicamente così delicata – che siano le parti sociali, nella loro autonomia, a confrontarsi, nella concretezza degli assetti contrattuali, sul grande tema della flessibilità.

Tanto più laddove, come nel mondo dei servizi, questa flessibilità è condizione strutturale della capacità delle imprese di rispondere alle attese ed alle esigenze dei consumatori.

Non a caso, del resto, tra i pochi miglioramenti registrati dall'Italia nella classifica europea che prima ricordavo, stanno il miglioramento del'occupazione e la maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Così pure, è responsabilità delle parti confrontarsi e decidere sull'architettura della contrattazione, evitando di ritrovarci in uno stato di negoziazione permanente e senza soluzione di continuità, con più livelli che, per così dire, cercano di rubarsi spazio l'uno con l'altro.

Per noi, è arrivato il tempo di una "manutenzione straordinaria" del sistema di contrattazione figlio del protocollo d'intesa del '93.

Anche su questo, infatti, ci giochiamo tutti insieme – imprese e lavoratori – la possibilità di lavorare di più e meglio, cioè con maggiore produttività, ridistribuendola, come è giusto, quando poi essa esplica i suoi effetti.

In tutto questo, ovviamente, il Governo non è, comunque, un semplice spettatore.

È un attore fondamentale: sia per la determinazione delle variabili macroeconomiche di riferimento, a partire dal tasso d'inflazione programmata, sia per le finalità redistributive della leva fiscale e per gli indirizzi in materia tariffaria.

Lo è per una dinamica salariale del pubblico impiego, che deve essere saldamente ancorata – anche in questo caso – agli incrementi di produttività della funzione pubblica e per le grandi politiche pubbliche in materia di sviluppo e di spesa sociale.

Sapendo che, piaccia o non piaccia, non possiamo, come Paese, continuare a concederci il lusso di non risolvere il "cortocircuito" tra una crescente spesa pubblica e una crescente pressione fiscale.

Benissimo, dunque, contrastare e recuperare evasione ed elusione. Senza cadere, però, nella trappola ideologica della ricerca degli imputati sociali di una patologia che, invece, investe trasversalmente tutta l'economia e tutta la società italiana.

Ma, francamente, sarebbe arrivato il momento di affrontare e risolvere anche questo "cortocircuito".

Componente fondamentale della spesa pubblica è la spesa sociale. È bene che si investa in sicurezza sociale, perché essa è fattore di coesione ed anche di competitività di sistema. Ma non possono esserci dubbi sul fatto che bisogna anche spendere bene.

Anche qui, è questione di responsabilità. Delle forze sociali e delle forze politiche, come del Governo.

Perché ammortizzatori sociali e nuove tutele – l'altra faccia della flessibilità strutturale e sostenibile – devono, soprattutto, puntare alla qualificazione professionale e al reimpiego.

Perché il sistema previdenziale deve necessariamente fare i conti con il costante allungamento della speranza di vita e con l'urgenza di mettere rapidamente a regime la previdenza integrativa, frutto dello smobilizzo del TFR.

Così stanno le cose. E, dunque, è davvero così drammatica l'ipotesi di potere accedere alla pensione di anzianità, nel 2014, a 62 anni di età?

Mentre molte ipotesi vengono avanzate, io dico, allora, una cosa molto semplice: facciamo i conti.

Chiariamo al Paese che qualsiasi ipotesi costa: finanziariamente e in termini sociali.

Costano le alternative allo "scalone" e, soprattutto, costa davvero troppo accantonare la revisione dei coefficienti pensionistici.

A meno che, ovviamente, non si pensi che, ancora una volta, a pagare debbano essere le generazioni che verranno.

Per questo, per tutto questo, occorre un Governo stabile e in grado di assicurare una governabilità di qualità. Quella che nasce da maggioranze parlamentari adeguate e, soprattutto, da intese programmatiche di maggioranza coerenti con le sfide che attendono il Paese.

E, dunque, non mi sembrano che possano esserci dubbi: fra tanti nodi, quello della riforma elettorale è,oggi, uno dei più urgenti. Anche rispetto a questo nodo, si misurerà la responsabilità delle forze politiche nei confronti del Paese.

Anche se – lasciatemelo dire – non esistono riforme elettorali perfette e, da sole, le riforme elettorali non bastano.

Ci vuole ancora qualcosa di più. La volontà di fondare l'alternanza tra gli schieramenti su un concetto – e qui confesso il mio debito nei confronti della lezione di De Gasperi – della democrazia come bene profondo, della democrazia come somma e non come sottrazione.

Per questo, le poche, grandi riforme fatte fin qui nel nostro Paese – dalla riforma del mercato del lavoro, frutto del "pacchetto Treu" come della legge Biagi, alla rifoma della previdenza, frutto delle norme Dini come dell'intervento di Maroni – meritano, come sempre, di essere costantemente verificate e discusse.

Ma per fare di più e di meglio. Non per tornare indietro.

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