Un 2004 da dimenticare per i bar italiani

Un 2004 da dimenticare per i bar italiani

Secondo un'indagine Fipe-Confcommercio su un campione di esercenti nelle grandi aree urbane, quest'anno il fatturato aggregato scenderà del 2,5%. Il settore investe quasi 2 miliardi di euro l'anno, ma per i prestiti a breve i tassi arrivano al 10%.

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4 ottobre 2004
Roma, 22 dicembre 1999

Un 2004 da dimenticare per i bar italiani

 

Abbassare il prezzo della tazzina di caffè al bar si può. Il consumatore potrebbe pagare almeno 3 centesimi in meno se i torrefattori riducessero del 10% il costo della fornitura di miscela ai baristi. E il risparmio potrebbe essere ancora più incisivo: cinque centesimi per tazzina in meno, se il ribasso del prezzo della polvere di caffè all’ingrosso fosse del 15%: un ribasso da parte dei fornitori assolutamente realizzabile. E’ una delle indicazioni più interessanti che emergono da un’indagine condotta dal centro studi di Fipe-Confcommercio su un campione di esercenti nelle grandi aree urbane.

Dallo studio, presentato a Milano nell’ambito di un convegno organizzato dalla rivista “Mixer”, risulta anche che il settore stima per il 2004 un fatturato aggregato in calo del 2,5%. Questo per quattro cause principali:rigidità nella scelta dell’approvvigionamento delle materie prime o nell’erogazione di servizi (buoni-pasto); carenza di manodopera sempre più qualificata; peso eccessivo della burocrazia; rigidità nell’accesso al credito per un costo del denaro eccessivo e una richiesta esagerata di garanzie reali ormai ampiamente superata dai Paesi europei. A quest’ultimo proposito, è stato calcolato che la cifra complessiva degli investimenti da parte del settore tocca quasi i 2 miliardi di euro l’anno, eppure i prestiti a breve per piccole cifre, cioè quelle sotto i 250mila euro, hanno tassi di interesse che arrivano al 10%.

Secondo il centro studi di Fipe–Confcommercio, una maggiore trasparenza nella concorrenza tra i fornitori potrebbe rappresentare un risparmio per il settore di 760 milioni di euro ed ulteriori risparmi potrebbero arrivare da uno snellimento della burocrazia (612 milioni di euro), mentre l’assenza di personale qualificato rappresenta un costo aggiuntivo di 450 milioni di euro: una zavorra economica pari a due miliardi, cioè il 12% del fatturato complessivo del comparto, di cui liberarsi al più presto.

Altri numeri interessanti riguardano il numero degli occupati (300mila), la distribuzione del fatturato per tipologia di prodotto (oltre il 31% viene dalla caffetteria), il numero dei bar in Italia (130mila), i prezzi (tra i più bassi d’Europa), il consumo di caffè (ogni gonro vengono bevute 30 milioni di tazzine).

Le maggiori  inquietudini arrivano tuttavia da accordi e rapporti spesso poco chiari fra i fornitori principali e i pubblici esercizi. “Ma la cosa che più ci allarma è che abbiamo un fondato sospetto – ha affermato il direttore generale, Edi Sommariva – che esistano contratti estemporanei o scritture private fra aziende fornitrici e gestori di pubblici esercizi con cui si arriva ad instaurare un rapporto di dipendenza economico-finanziaria del tutto anomalo. Secondo alcune segnalazioni di nostri associati, esistono due nuovi fenomeni: la fidelizzazione – il fornitore di turno concede prestiti in denaro oppure concede in macchinari in comodato d’uso o di seconda mano al gestore di un bar per aprire un’attività o ristrutturare il locale in cambio della garanzia di rimanere fornitore unico per un certo numero di anni – e il ‘consiglio’ sulla scelta di questo quel fornitore raccomandato. Quest’ultimo è un fenomeno di tipica criminalità organizzata e mi domando: è solo argomento da antitrust? Perché nessuno interviene?”.

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