Discorso del Presidente Sergio Billè alla conferenza stampa di apertura del Forum Confcommercio 2005

Discorso del Presidente Sergio Billè alla conferenza stampa di apertura del Forum Confcommercio 2005

Cernobbio, 18 marzo 2005

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18 marzo 2005

Al punto in cui siamo, mi sembrano superflui altri giri di frase.

Intendo dire che, per far ripartire la nostra economia, la cosiddetta "scossa" ormai non basta più.

Ci vuole un vero e proprio "strappo", anzi ce ne vogliono addirittura due.

Per mesi ci siamo cullati nell'illusione che, per rimettere in piedi il sistema, bastasse un moto d'orgoglio.

Bastasse quasi infilare di nuovo la spina nella presa di corrente per tornare a correre.

È una giaculatoria che è stata ripetuta ad ogni angolo di strada, ma purtroppo con scarsi risultati.

Per questo, anche se la speranza è l'ultima a morire, è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà per quella che è e non per quella che altri vorrebbero che fosse.

Ed è una realtà che si sta facendo sempre più pesante, più insidiosa e più complicata da ogni lato.

Non vanno, difatti, prese sotto gamba le preoccupanti analisi fatte due giorni fa da Bankitalia sul reale andamento della nostra economia.

E va ancor meno presa sotto gamba la decisione presa dall'Avvocatura generale della Corte europea di giustizia di considerare l'Irap come un'imposta "incompatibile con il diritto comunitario" e quindi, di fatto, fuori legge.

Era una decisione che incubava da tempo, ma che si sperava che non si concretasse proprio ora cioè nel momento in cui , a causa della perdurante crisi economica, non solo l'Italia ma anche di gran parte dei paesi europei sono con il fiato corto e , per questo, costretti a rimodulare, in modo significativo, piani di rientro del debito e strategie di sviluppo.

Ma siccome, la Corte Europea, quando si muove su queste cose, non spara certo a salve , mi pare quanto mai urgente che sull'Irap, un'imposta che noi, assai prima che si pronunciasse l'Europa, avevamo giudicato sciagurata e devastante, il governo faccia finalmente chiarezza.

E va messo in chiaro un punto.

Non vorremmo che , finito forse l'incubo dell'Irap  ne arrivassero per noi altri.

Perché questo accadrebbe se ci si limitasse a spostare il gettito derivante da questa imposta da una casella all'altra  ma sempre a carico dell'impresa.

Va chiarito che una simile camaleontica operazione sarebbe per il mondo delle imprese del tutto inaccettabile.

E' tutto il sistema fiscale che deve essere sostanzialmente ridisegnato e reso finalmente più compatibile con la primaria esigenza della crescita economica.

E non mi pare con questo di dire nulla di sovversivo.

Ma, si dirà, la coperta è corta e non si può certo allungare. Vero. Infatti non si tratta di allungarla, ma di cambiarla.

E per farlo bisogna mettere finalmente sotto controllo la spesa pubblica ma poi anche decisamente ridurla nella sua parte largamente improduttiva, una parte che oggi - per il solo suo sostentamento - assorbe una parte rilevante delle risorse di cui lo Stato dispone.

Il che vuol dire risolvere un'equazione complessa e a più incognite.

Risolvere,in primo luogo, quell'ingombrante pasticcio rappresentato oggi da un federalismo che si va costruendo senza il pilastro del federalismo fiscale.

Può anche aver ragione il leghista Calderoni a protestare per la lentezza con cui il Parlamento sta discutendo di Devolution e di altre cose.

Sarebbe bene però che anche Calderoli si mettesse nei panni di chi, dentro e fuori del parlamento, continua ad avere su questa riforma e sui suoi costi idee poco chiare.

Fino ad ora ne abbiamo commessi fin troppi e non è più il caso di insistere su questa strada.

Torno ai problemi del quadro economico.

Non intendo sottovalutare gli agenti stimolatori contenuti nel decreto sulla competitività varato dal governo.

Sono qualcosa, meglio di niente, ma non bisogna illudersi che, da soli, essi possano bastare.

Ecco perché, per la salvezza, occorre uno "strappo".

Strappo fattuale e profondamente innovativo per quanto riguarda modelli, strategie ed obiettivi.

È chiaro, infatti, che ci troviamo ormai di fronte ad un sistema che ha gomme, impianto elettrico e carburatori talmente usurati da non permetterci più di vincere alcun tipo di gara.

E, insieme ad una politica da strappo per l'individuazione di nuove strategie economiche, occorrono anche interventi di carattere costituzionale perché, con l'attuale assetto delle Istituzioni, difficilmente potremo avere un modello di governance pubblica capace di raccogliere e di vincere le sfide che oggi ci vengono imposte dalla competizione mondiale.

So bene che, ponendo anche questo secondo problema, rischio di urtare molte suscettibilità e da vari lati, politici e non.

L'ho già messo nel conto.

Ma, nel sottolineare anche l'urgenza di riforme costituzionali, penso di essere in qualche modo interprete di quella larga parte del paese - famiglie ed imprese sullo stesso carro e unite dallo stesso oggi incerto destino - che non ne può più di proposte che, su questo versante, restano solo bolle d'aria.

So che è un tema difficile, ma il nostro non è forse un popolo di giuristi? Possibile che non ve ne sia nessuno su piazza in grado di formulare proposte che possano raccogliere il consenso di tutte o almeno di gran parte delle forze politiche?

Siamo stanchi, stanchissimi di questo eterno girotondo.

Torno al problema dello strappo necessario in campo economico.

Le iniziative assunte da questo governo per rimettere in carreggiata la nostra economia non hanno fino ad ora prodotto purtroppo i risultati sperati.

E un po' più di autocritica, anche da questo lato, sarebbe cosa utile.

Non è però nemmeno chiaro quale sia il modello alternativo che l'opposizione intende proporre per raddrizzare la barca.

Si intende operare da questo lato per il rafforzamento di un modello riformista o si pensa, invece, ad un riflusso verso forme in qualche modo dirigiste?

E vanno prese sul serio le idee di chi sembra orientato ad un ridimensionamento della proprietà privata o si tratta solo di parole dal sen fuggite?

La politica continua a parlare molto di Irak. Sarebbe corretto che parlasse di più e con maggiore trasparenza anche di quel che sta accadendo da qualche tempo in Italia.

I temi caldi sono parecchi e saranno tutti al centro di questo meeting di Cernobbio.

Provo a scandagliarne alcuni.

(uno) Si fanno sempre più evidenti i segnali di smottamento, anzi di cedimento strutturale di buona parte del nostro comparto manifatturiero: a) crescente perdita di appeal del prodotto italiano sul mercato interno; b) andamento dell'export che risulta sensibilmente al di sotto dei parametri di crescita del commercio mondiale tanto è vero che, in pochi anni, abbiamo perduto un terzo della nostra quota di mercato; c)ricerca e innovazione al lumicino.

Si tratta di cedimenti strutturali talmente vistosi da diventare quasi un problema di calamità naturale e di Protezione Civile.

Giusto e più che corretto adottare interventi straordinari che possano essere di immediato sostegno ai cassaintegrati dei comparti maggiormente in crisi.

Ma dopo cosa succede?

Si pensa veramente che sia sufficiente piantare qualche alberello sul costone della montagna per impedire più gravi smottamenti?

Sono interrogativi che, per ora, hanno avuto solo risposte parziali e scarsamente convincenti.

E' evidente che il nostro modello industriale si trova oggi ad un bivio: o si rinnova in modo da ritornare competitivo o si chiude dentro Fort Alamo cercando di difendersi con l'arma del protezionismo.

Qualunque sia la strada che si vuole imboccare, una cosa va però messa fin d'ora in chiaro: l'oggettiva impraticabilità di un sostegno pubblico che possa arginare le difficoltà di questi settori.

Primo, perché le risorse pubbliche sono ormai davvero poche e quelle ancora disponibili devono essere destinate ad inderogabili priorità quali infrastrutture e servizi di base. Secondo, perché l'Europa sta andando in tutt'altra direzione.

E ce ne è anche una terza: non solo non è più il tempo di politiche di conio assistenzialista, ma è anche arrivato il momento di realizzare un modello nuovo di economia che tenga maggiormente conto di chi, in questo paese, sta creando davvero valore aggiunto e sta facendo da volano alla produzione di ricchezza.

Non vi voglio ammorbare con le solite statistiche, ma lasciatemi mettere sul piatto almeno due dati: mentre i servizi di mercato contribuiscono oggi alla creazione di valore aggiunto per il 50,8%, la fabbricazione, in senso stretto, di mezzi di trasporto vi contribuisce solo per un 1,2%.

Vi sembra possibile che si continuino a destinare, sotto forma di incentivi, a questo 1,2% risorse pubbliche quaranta volte superiori a quelle destinate, invece, ai servizi di mercato?

Il nodo sta tutto qui e fino a quando non verrà sciolto i discorsi sul nuovo modello di sviluppo resteranno anelli di fumo.

(due) La montante, visibile ormai ad occhio nudo, sfiducia di famiglie e risparmiatori - evidenziata anche nel rapporto Censis - sulle possibilità che la nostra economia possa presto uscire dalla fase di patologica precarietà in cui si trova ormai da tempo.

E' vero che chi è costretto a farsi i conti in tasca ogni giorno - e sono conti in rosso - non ha né voglia né tempo di pensare positivo e di essere lungimirante.

E' anche vero però che, soprattutto da parte delle Istituzioni, si sta facendo assai poco di concreto per trasmettere a famiglie ed imprese l'idea che, oltre lo steccato della crisi, possa esserci un futuro migliore.

(tre) Il peso, da un lato, di una burocrazia che resta fra le più costose ed improduttive del mondo e quello, dall'altro, della pressione fiscale e del costo dei servizi che sta togliendo fiato e sonno sia alle imprese che alle famiglie e non so quale di queste due componenti dell'economia reale stia oggi arrancando di più.

Con equivoci di fondo che pesano come pietre. Vero che il governo sta riducendo, in qualche modo, l'Ire sulle famiglie, ma questa operazione ha prodotto, di controbalzo, un taglio nei trasferimenti di risorse alle amministrazioni locali che ora si vedono costrette o ad indebitarsi ulteriormente o ad imporre nuove addizionali o a fare tutte e due le cose.

Il rischio insomma è quello di una partita di giro nella quale alla fine chi ci rimette è sempre il contribuente.

L'anno scorso Berlusconi, proprio qui a Cernobbio, ci aveva promesso mari e monti. Gli uni e gli altri sono purtroppo rimasti, in gran parte, un miraggio.

E vogliamo parlare anche dell'Irap?

È vero che senza i 33 miliardi di euro incassati ogni anno con l'Irap - due punti e mezzo di Pil e più del doppio del Pil realizzato nel 2004 - le amministrazioni locali non saprebbero come gestire la sanità, ma perché non si continua a fare niente di niente per tagliare almeno i costi esorbitanti di quella parte della burocrazia che resta vistosamente improduttiva?

E su questo livello di improduttività parlano chiare le statistiche del World Economic Forum pubblicate qualche giorno fa.

L'inconcludenza con cui si muove su questo terreno la dirigenza politica è davvero disperante: un rosario di promesse e poi nulla.

Fino alla fine degli anni ‘80 la nostra dirigenza politica è vissuta in allegria pensando che debito pubblico, inflazione e svalutazioni competitive potessero essere le giuste scorciatoie per produrre benessere. Poi, per salvare il paese dalla bancarotta, è cominciata la cura da cavallo.

Risultato: si è tamponata la crisi, ma il sistema è rimasto nudo di fronte alla globalizzazione e ai problemi di un mercato che tende ormai a cancellare ogni barriera protettiva.

(quattro) Per fronteggiare la globalizzazione e questa specie di tsunami economico il nostro fabbricato costituzionale appare, come ho detto, ormai sostanzialmente inadeguato. Pur facendo salve tutte le garanzie dell'equilibrio dei poteri, esso va ricostruito con criteri antisismici.

Non si può più, su questo assillante problema, giocare al tiro al piccione come stanno facendo da dieci anni a questa parte le forze politiche di destra come di sinistra.

È uno sport inutile, nocivo e costoso che andrebbe messo fuori legge.

Torno al problema delle prospettive economiche.

Mi pare che stiamo ancora continuando a camminare sui carboni ardenti.

Non possiamo aspettarci, infatti, per questo 2005 e forse nemmeno per il 2006, novità di rilievo.

Le prospettive di crescita di quest'anno risultano già dimezzate rispetto alle previsioni fatte dal governo e questo ripropone problemi di equilibrio della finanza pubblica.

In base alle stime fatte dal nostro Centro Studi, il rapporto deficit/pil, a causa della minore crescita ed anche di un possibile aumento, per motivi petroliferi, del tasso di sconto, dovrebbe essere del 3,3% nel 2005 e del 3,6% nel 2006.

E il capitolo consumi non è certo migliore: per le famiglie prevediamo un modestissimo +0,9% nel 2005 che potrebbe salire all'1,3% nel 2006.

Va anche segnalato che, data la forte esposizione delle famiglie nei confronti delle banche per i mutui ottenuti per l'acquisto della casa, misure anche contenute di rialzo dei tassi da parte della Bce potrebbero indurre, nel 2006, a comportamenti ancora più prudenti sul versante dei consumi rispetto a quelli oggi stimati.

Non è chiaro come il governo intenda affrontare questo problema, come non è ancora affatto chiaro quali significative aperture vi potranno essere, in concreto, a Bruxelles, per una revisione del Patto di stabilità.

Noi ci auguriamo che queste aperture maturino, ma siccome non crediamo più alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, il problema di un ulteriore prolungamento della fase di quasi stagnazione dei consumi e degli investimenti va purtroppo messo nel conto.

Difatti, a bocce ferme, il nostro debito potrà ridursi, nel biennio, solo dell'1,3% scendendo dal 105,8 del Pil nel 2004 al 104,5 del 2006 cioè assai al di sotto degli obiettivi programmati.

Ci era stato promesso qualcosa di sostanzialmente diverso.

Per questo insisto sulla necessità di operare uno "strappo" individuando una nuova e più coraggiosa politica economica.

Servono nuovi strumenti e soggetti più motivati che, da un lato, rivitalizzino il mercato interno e, dall'altro, ridisegnino il funzionamento di gran parte della macchina pubblica.

Ma anche altri "strappi" sono necessari.

È indispensabile che lo Stato si decida, in primo luogo, ad accelerare le procedure delle privatizzazioni che è poi l'unico strumento oggi disponibile per ridurre l'entità mostruosa del nostro debito.

Per ora, su questo versante, ci si sta muovendo con tortuosa lentezza.

Perché lo Stato non si decide a mettere in vendita il suo enorme patrimonio immobiliare - quasi 1.800 miliardi di euro - che di sola burocrazia e manutenzione costa cifre folli?

Anche se so di toccare un altro nervo scoperto, non posso non parlare del pubblico impiego e delle ingenti risorse che esso sottrae al sistema dell'economia reale.

E' giusto o no che un dipendente pubblico abbia oggi una retribuzione del 44% più alta di quella di un dipendente privato?

Ed è giusto che, per unità di prodotto, il costo del lavoro, nella Pubblica Amministrazione, sia del 63% più elevato di quello di un'impresa privata?

C'è di più. Dal 1993 al 2003 il numero dei dirigenti pubblici è salito da 145 mila a 179 mila mentre quello dei dirigenti di aziende private è sceso da 170 mila a 165 mila. Oggi, nel pubblico, vi è un dirigente ogni 29 dipendenti mentre nel privato ve ne è uno ogni 65 con conseguenze sul costo del lavoro facilmente immaginabili.

E tutto questo senza la "tara" delle consulenze d'oro o di platino che, nel pubblico, stanno crescendo in modo debordante.

E un vero e proprio "strappo" di chiarezza si impone ormai anche sulla riforma del federalismo.

Sono diversi anni che ce la meniamo prima con la riforma del titolo V della Costituzione e poi con quella della devolution ma ancora oggi, sul delicato tema del federalismo fiscale, siamo all'anno zero nel senso che non si sa quanto costerà, chi pagherà le spese e quale sarà il nuovo sistema di imposte.

Formigoni ha detto pochi giorni fa che è inconcepibile che al federalismo fiscale non sia stato messo ancora nemmeno un primo mattone.

Se è inconcepibile per una Regione come la Lombardia, figuriamoci quanto lo può essere per molte altre regioni italiane.

Si è immaginato che il trasferimento sul territorio di personale e di strutture sia a costo zero.

Mi pare un'utopia perché, per raggiungere questo obiettivo, dovrebbero realizzarsi due condizioni: che vi sia una mobilità assoluta, senza se e senza ma, di un assai cospicuo numero di dipendenti; e che la somma dei costi di apparato e di funzionamento di 20 Regioni sia uguale a quella di un'unica struttura centrale.

L'esperienza dei decreti Bassanini del 2000 ci dice esattamente il contrario: mobilità assai scarsa e costi aumentati in modo rilevante.

E come dovrebbe realizzarsi allora, in tema di devolution, lo strappo?

Semplice, realizzando con il federalismo un modello di macchina pubblica e di burocrazia completamente nuovo, più agile, più efficiente e meno costoso.

Non mi sembra che si stia procedendo su questa strada. Anzi le copie di modelli che si stanno realizzando sono, anche per quanto riguarda i costi, addirittura peggiorativi.

Nel concludere, vorrei sintetizzare i punti più salienti di questa politica di strappo che, per uscire dalla palude di questa crisi, dovrebbe essere subito messa in cantiere.

  1. Un modello nuovo di strategia che punti prima di tutto al reperimento di robuste risorse da impegnare nella ricerca, nell'innovazione e nella formazione. E, per attuare questo piano, non dovrebbe essere perso nemmeno un giorno perché passeranno degli anni prima che questi investimenti possano dare al sistema reali benefici. Oggi, in tema di innovazione e di tecnologia, paesi come l'India e l'Irlanda sono all'avanguardia perché hanno da tempo seminato.
    Noi siamo, da un lato, con brevetti che risalgono agli anni '60 e, dall'altro, con semi in mano senza ancora sapere come e su quale tipo di terreno spargerli.
  2. Il ritardo che si sta accumulando nella realizzazione di infrastrutture non solo è diventato assai pesante ma sta producendo anche un'impressionante lievitazione dei costi necessari per l'edificazione di queste opere.
    Con l'idea che tutto e subito andasse, in qualche modo, "cantierato" abbiamo accumulato programmi che poi, per mancanza di risorse, sono rimasti, in gran parte, irrealizzabili.
  3. Anche sul versante della politica finanziaria e del credito occorre realizzare importanti correzioni di strategia. E' indispensabile, ad esempio, orientare diversamente - e la variazione, rispetto al presente, dovrebbe essere almeno almeno 90 gradi - la politica del credito in modo che essa possa diventare un efficace e strategico supporto per l'ammodernamento, il potenziamento e la crescita dimensionale delle imprese che operano nella grande area dei servizi di mercato.

Non si sollevano sostanziali obiezioni sul fatto che il mondo bancario debba continuare a destinare risorse, fino talvolta a svenarsi, al settore delle grandi imprese oggi in evidente difficoltà anche sotto il profilo finanziario.

È una scelta ponderata, complessa, in certi casi "dovuta", che nessuno intende mettere in discussione.

È anche evidente però che le strutture del credito non possono più disconoscere o tenere a distanza o continuare a guardare solo col binocolo le esigenze di quelle centinaia di piccole e medie imprese che, per mancanza di adeguati sostegni finanziari, sono costrette a rinviare di mese in mese, di anno in anno, problemi che si chiamano crescita dimensionale, tecnologie, innovazione, miglioramento e rimodulazione della qualità dell'offerta.

Se il mondo del credito li aiutasse, per queste imprese "fare sistema" diventerebbe un obiettivo facilmente realizzabile.

Io credo che, sul versante del credito, qualche opportuna ed importante riflessione su questi temi si stia facendo, anzi stia già in una fase avanzata.

L'obiettivo dovrebbe essere quello di creare tra mondo del credito e Pmi un'interazione, direi anzi una interconnessione di interessi che sia ancorata soprattutto all'esigenza di creare modelli economici che accrescano la competitività del sistema.

E dalla realizzazione di questi modelli tutti potrebbero trarre vantaggio: lo Stato perché accrescerebbe il volume delle sue risorse, le imprese manifatturiere perché potrebbero confrontarsi con settori dei servizi più efficienti, le famiglie perché potrebbero godere di un'offerta di prodotti di migliore qualità.

Ultimo punto prima di chiudere e non consideratelo il solito refrain di ogni nostro convegno.

Bisogna ridurre davvero la pressione fiscale sulle imprese perché questo resta l'unico modo per favorire e potenziare gli investimenti pubblici anche attraverso il capitale privato.

Per quanto riguarda, invece, le famiglie è indispensabile che trovi attuazione l'ulteriore riduzione della pressione fiscale diretta.

Questa riduzione appare in cantiere, ma mi chiedo: i 12 miliardi di euro che, a questo fine, sono stati promessi, ci sono veramente? E, se ci sono, su quali conti e sulle spalle di chi verrebbero caricati?

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