Sergio Billè alla presentazione del rapporto Censis-Confcommercio "Più terziario, più sviluppo".

Sergio Billè alla presentazione del rapporto Censis-Confcommercio "Più terziario, più sviluppo".

Roma, 23 maggio 2005

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23 maggio 2005
Intervento di Sergio Billè

La prima cosa che cercai di fare approdando, nel 1995, in Confcommercio fu quella  di cercare di capire quale mondo ero stato chiamato a rappresentare.

Mi bastò qualche pomeriggio di full immersion su dati, cifre, parametri di crescita ed altro per capire che toccava a me, anche se non soltanto a me, rappresentare gli interessi proprio di quella parte del nostro sistema imprenditoriale che era destinata, entro pochi anni, a fare da vero e forse più importante volano allo sviluppo della nostra economia.

E rimasi anche un po' interdetto per la definizione - terziario di mercato - con cui si usava etichettare questo grande e sempre più modulato sistema di imprese.

Terzo di che se stava diventando il settore che rappresentava ormai più del 50% del valore aggiunto del paese?

Così poche settimane dopo, alla mia prima assemblea confederale, mi tolsi, di fronte ad un uditorio anche istituzionale, un primo sassolino dalla scarpa: ma come si fa, chiesi, a tenere confinato ancora in loggione e quindi in gran parte ancora fuori dai centri decisionali della politica economica un settore che oggi produce più Pil, più posti di lavoro e più di tutto rispetto ad altri settori?

Ecco questo Billè, sussurrò gelido chi era abituato a trattare i piani di sviluppo dell'economia secondo vecchi parametri e vecchi riti, che si è già montato la testa e straparla.

Sono passati da allora dieci anni - ed è stato un periodo assai difficile e segnato da miriadi di ritardi e di incomprensioni - ed ecco che  arriva il Censis che produce questa significativa ricerca da cui si evince che il terziario è ormai diventato uno dei motori propulsivi, già reali e potenziali insieme, dello sviluppo.

Un'autentica notarile di cui c'è bisogno per riflettere di più e con maggiore cognizione di causa su questo settore dell'economia.

Se già, nel 1987, gli occupati del terziario superavano quelli dell'industria, pochi anni dopo avveniva un definitivo sorpasso anche per la quota di Pil che, nel 2003, rispetto a quella dell'industria, si era  raddoppiata.

Il loggione, insomma, stava diventando un grande parterre.

Per questo abbiamo cominciato  a sgomitare.

Era ormai anche chiaro che il rapido processo di terziarizzazione del nostro sistema non era un albero nel deserto ma un albero che cresceva in una foresta: la diretta conseguenza di una globalizzazione che aveva imposto un sostanziale rovesciamento della piramide delle priorità e dei valori su cui si reggeva l'economia mondiale.

Priorità e valori che relegavano in soffitta la cultura fordista divenuta ormai sempre più flessibile nei moduli, nelle strategie e negli impianti e che, invece, avevano trasferito il mondo dei servizi alle imprese e alle persone al piano nobile.

Quali siano oggi le sempre più dinamiche componenti del terziario questo rapporto del Censis lo indica con chiarezza.

E, su questo aspetto, mi sembra superfluo aggiungere qualcosa.

Non è, invece, superfluo chiedersi i motivi per i quali questo processo di terziarizzazione del sistema non è stato fino ad oggi supportato dai piani e dalle strategie che sarebbero stati necessari per dare ad esso un più solido, organico e programmato sviluppo.

E i motivi sostanziali mi pare che siano soprattutto due.

Il primo è certo legato all'incapacità delle componenti imprenditoriali di questo settore di far sì che questo sviluppo fosse necessariamente accompagnato ed integrato da strategie che consentissero la razionalizzazione e la modernizzazione degli impianti.

Ed è un "mea culpa" che va sicuramente messo nel piatto: scarsa informatizzazione delle reti, inadeguata formazione del personale, insufficiente programmazione degli investimenti, iniziative imprenditoriali che, perché troppo tarate di individualismo, non riuscivano a creare i parametri necessari per un miglioramento del sistema dell'offerta e per una sua maggiore competitività.

Ma il secondo motivo ha pesato assai di più. Parlo dell'incapacità delle Istituzioni di comprendere per tempo l'entità e le dimensioni di questo processo di cambiamento del sistema.

E, più che di incapacità, vorrei parlare di folle miopia.

Era evidente, infatti, che questa rapida trasformazione dell'economia avrebbe richiesto, da parte delle Istituzioni, adeguati piani, strategie ed investimenti volti a rafforzare prima di tutto il sistema delle infrastrutture e quello della logistica.

Questo purtroppo non è stato fatto e i ritardi che, su questo versante, si sono andati via via accumulando hanno pesato e continuano a pesare come macigni sullo sviluppo del terziario.

Ed è una responsabilità così grave che non la lava nemmeno l'oceano.

Era chiaro, infatti, già dieci anni fa che questo processo di terziarizzazione del sistema sarebbe finito in un imbuto se non si fossero realizzate, nel frattempo, strade, infrastrutture, reti adeguate a programmare, razionalizzandone costi e tipi di offerta, il processo di sviluppo di questo settore.

Troppo poco fino ad ora è stato fatto su questo versante: mentre altri paesi, cito fra tutti la Spagna, correvano a 100 all'ora dando la priorità alla costruzione di infrastrutture che, ad esempio, cementassero e rafforzassero il sistema dell'offerta  turistica, noi procedevano a 20 all'ora, con soste, ritardi, deviazioni, continui ripensamenti che allo sviluppo della nostra economia sono costati un'enormità.

Abbiamo accumulato il terzo debito più alto del mondo, ma a cosa è servito accumulare questo enorme debito se un terzo della nostra rete infrastrutturale - parlo soprattutto del Sud - è ancora da costruire o è impantanata in centinaia di cantieri che restano sempre aperti?

Non voglio fare più di tanto polemiche retrò, ma non si possono nascondere i guasti prodotti da una programmazione della nostra economia che, mentre il mondo correva da una parte, continuava a correre in senso opposto e ad essere impegnata al sostegno di settori e di modelli di impresa che la globalizzazione dell'economia non considerava più, in alcun modo, prioritari.

Miopia, troppa miopia. E le cui conseguenze sono purtroppo sotto i nostri occhi.

Ma ci voleva così tanto a capire che i vecchi modelli industriali non erano più il vangelo del processo economico moderno?

Ci voleva così tanto per capire che, pur salvaguardando i nostri prodotti industriali, la strada dello sviluppo passava ormai soprattutto da un forte, articolato e programmato rilancio del sistema dei servizi?

Credo che un profondo ripensamento oggi delle modalità di sviluppo del nostro sistema oggi vada fatto.

Nessuno nega l'importanza di continuare a sostenere i nostri prodotti industriali. E' chiaro però che non possiamo subordinare a questa esigenza altri interessi, altre priorità, altri obiettivi, altre esigenze che, per lo sviluppo del nostro sistema, sono diventati ormai indispensabili.

Da parte delle Istituzioni insomma, e concludo, è ormai indispensabile un ripensamento profondo e strutturale delle sue linee di politica economica.

Non farlo è ottusità, rinviarlo sarebbe per il sistema assai dannoso.

In queste ultime ore la Cina ci ha surclassato anche sul versante del turismo togliendoci quel terzo posto, nella graduatoria dei paesi di grande offerta turistica, che era il nostro fiore all'occhiello.

E non è detto che altri paesi presto ci superino.

Mi chiedo che cosa sarà dell'Italia se anche il suo turismo, una sconfitta dopo l'altra, venisse relegato in serie B.

Sarebbe assurdo ma, allo stato delle cose, un simile rischio sta diventando concreto ed attuale.

Facciamo qualcosa prima che sia troppo tardi.

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