La geometria italiana del capitalismo

La geometria italiana del capitalismo

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30 luglio 2015

Forse è utile cominciare dalla geometria e osservare come sempre di più il capitalismo italiano perda la tradizionale forma a piramide e acquisti quella a trapezio. Per dirla più crudamente il vertice sparisce e il baricentro si sposta in basso. L'elenco delle grandi aziende che in un lasso di tempo breve è passata in mano straniera comprende, oltre ltalcementi dei Pesenti, la Loro Piana, la Pirelli e la Indesit…

In generale si può dire che per il combinato disposto di 13 anni di euro e 7 di Grande Crisi gli imprenditori italiani non sono riusciti a mettere su la taglia necessaria per poter restare in gara come aggregatori nei settori caratterizzati da iper-concentrazione. Continuiamo a rappresentare la seconda manifattura d'Europa pur assomigliando a un trapezio e avendo perso lo slancio della piramide…

La base alta del trapezio di cui abbiamo parlato è rappresentata dalle nostre multinazionali tascabili e già l'aggettivo ne tradisce la caratteristica decisiva, quella di lavorare prevalentemente sulle nicchie e di aver raggiunto per questa via uno status di azienda globale. Ne abbiamo un bel numero e progressivamente il plotone si sta allargando, del resto la straordinaria avanzata dell'export italiano negli anni della Grande Crisi è stata possibile proprio perché la platea si è ampliata. Le nostre aziende medio-grandi hanno dunque grandi pregi e alcune di esse come Ferrero e Lavazza hanno in corso processi di aggregazione all'estero, eppure i difetti non mancano e si vedono a occhio nudo. Non sono sufficientemente managerializzate e in molti casi nutrono una vera idiosincrasia nei confronti della Borsa: due fattori che ne hanno finora limitato le potenzialità…

Resta sul lato basso del trapezio la larghissima presenza delle piccole imprese e di quello che Maurizio Sacconi definisce «il nostro capitalismo popolare». È una grande risorsa in termini culturali, è decisiva per la tenuta dei territori e in qualche modo riesce a dare forma compiuta all'individualismo italiano. È evidente però come manchi un grande progetto capace di portare a valore sistemico la straordinaria presenza dei piccoli, e anzi in questi anni si sono fatti passi indietro come testimonia il semi-fallimento del progetto di Rete Imprese Italia. L'apertura del capitale e le aggregazioni tra simili dovrebbero essere altrettanti passaggi di questo progetto ma le resistenze culturali sono profondissime e purtroppo neanche la Grande Crisi le ha smosse. Sia chiaro: non è certo dal basso che potremo rimediare al «taglio del vertice» ma nemmeno si può sommare danno e beffa.

Dario Di Vico

Tratto dal Corriere della Sera del 30 luglio 2015

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